Il rilievo dell’art. 7 della CEDU nell’ordinamento giuridico nazionale e l’efficacia nel tempo dei mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti al fatto.

Lucia Lorenzini By Lucia Lorenzini | noviembre 24, 2012 | Italy

Qual è il rango da dare agli articoli della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell'ordinamento giuridico italiano? Ai mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti al giudicato penale di condanna si applica il principio di retroattività favorevole desumibile dall'art. 7 CEDU?

   L’ordinamento penale nazionale poggia le proprie fondamenta nel principio di legalità; con la sua statuizione il legislatore ha voluto riservare ad ogni soggetto di diritto operante nel territorio nazionale la preziosa garanzia per cui condizione necessaria la sua punibilità è l’aver commesso un fatto che sia espressamente previsto dalla legge come reato. È noto, infatti, che al fine di tutelare uno dei diritti inviolabili dell’uomo, qual è la libertà personale di cui all’art. 13 Cost., il legislatore non avrebbe potuto non basare l’intero codice penale, che si rivolge a tutti coloro -cittadini o stranieri- che si trovano nel territorio dello Stato (art. 3 c.p.) e che di fatto agisce in primis su tale libertà limitandola, proprio sulla garanzia racchiusa all’interno dell’articolo che apre il codice in vigore già dal 1931. L’articolo 1 c.p., infatti, sin da subito richiama il secondo comma dell’art. 13 Cost., con il quale si ammette una qualsiasi forma di restrizione della libertà personale solo ed esclusivamente nei casi e nei modi previsti dalla legge. Il principio di legalità al successivo articolo 2 c.p. si compone di più precisi connotati applicativi. Accanto ai principi di tassatività della legge penale e di riserva di legge, di cui al citato art. 1 c.p., nonché all’art. 25 secondo comma Cost., il principio de quo si caratterizza anche per il corollario dell’irretroattività della stessa legge penale. Se al primo comma dell’art. 2 cp si dà rilievo al tempus commssi delicti, in considerazione del fatto che nessuno può essere punito per aver commesso un “fatto che secondo la legge del tempo ..non costituiva reato”, al secondo comma il principio di irretroattività, sottoprincipio racchiuso in quello più vasto di legalità, si colora di sfumature speciali. In tale comma, infatti, si statuisce che nel caso in cui venga emanata una legge, posteriore alla commissione di un fatto che per la legge del tempo costituiva reato, ma che preveda per il reo un trattamento tale per cui lo stesso soggetto per gli stessi fatti non possa più essere considerato imputabile, si applicherà la legge successiva più favorevole. Nello stesso comma si fa riferimento anche al fatto per cui anche qualora sia stata emessa una sentenza di condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali, proprio in conseguenza dell’emanazione di una legge che preveda l’abolitio del crimen commesso. Fatta eccezione, poi, del caso in cui sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, si andrà ad applicare la legge –anche se posteriore- più favorevole al reo (art. 2, 3 co., cp).

   Strettamente connesso agli artt. 25 Cost., secondo comma, 1 e 2 cp, è l’art. 7 della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, che rubricato “nullum crimen sine lege”, contempla anch’esso nei suoi due commi che il principio di legalità per cui si fa subordinare l’inflizione di una condanna, per l’azione o l’omissione di cui si è macchiato un soggetto, alla precedente emanazione di una legge che , secondo il diritto interno degli Stati o secondo il diritto internazionale, la inquadrava come reato. Si continua poi con il principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole per il reo rispetto a quella che era applicabile al momento in cui fu commesso il fatto di reato.

   Su questa tematica diversi sono stati i dibattiti affrontati in dottrina e non sono mancati neanche interventi giurisprudenziali in merito non solo al generale principio di legalità, ma in particolare al principio della successione delle leggi penali nel tempo e ai suoi limiti applicativi. In dottrina, per esempio, si è subito sentita l’esigenza di chiarire se i principi sin qui richiamati fossero conformi a quanto previsto a livello comunitario, considerato l’intervento delle disposizioni CEDU che dal 1950 ha assunto via via un’importanza sempre crescente.

   Piuttosto discussa è stata la questione riguardante il rango da dare alla CEDU soprattutto a livello nazionale, o meglio, ci si è più volte chiesti come si sarebbe potuto risolvere un eventuale contrasto tra una disposizione CEDU ed una norma nazionale, e ancora secondo quali principi normativi una norma CEDU avrebbe dovuto trovare collocazione nel nostro ordinamento interno. Rispondere a tali quesiti sarà indispensabile per chiarire quale rilievo assuma nel nostro sistema ordinamentale la Convenzione e in particolare l’art. 7 della stessa.

   Secondo l’orientamento prevalente, confermato ripetutamente dalla Corte Costituzionale italiana, la Convenzione EDU deve essere concepita come parametro costituzionale interposto in base all’art. 117 Cost. primo comma, secondo il quale la potestà legislativa esercitata da Stato e Regioni deve rispettare i vincoli posti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

   La disposizione costituzionale appena richiamata, che apre il titolo quinto oggetto di riforma della legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001, secondo la Corte attrarrebbe le norme CEDU nella sfera del controllo di legittimità costituzionale. Non sarebbe, quindi, in seguito né all’art. 10 né all’art. 11 Cost., che le disposizioni CEDU entrerebbero a far parte del nostro ordinamento interno.

    L’art. 10 Cost., infatti, con la sua espressione “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” si riferirebbe esclusivamente alle norme consuetudinarie, lasciando da parte invece le norme pattizie, anche se generali, racchiuse in trattati internazionali bilaterali o multilaterali come la CEDU.

   Se si considerassero, invece, richiamate dall’art. 11 Cost., bisognerebbe ammettere, diversamente da come è stato in realtà, che aderendo alla Convenzione del ’50 l’Italia, così come gli altri Stati, abbia accettato una limitazione della propria sovranità (“l’Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”).

    L’art. 117 Cost., invero, a differenza dei richiamati artt. 10 e 11 Cost., condiziona semplicemente l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al “rispetto degli obblighi internazionali”, ed è proprio tra essi che è possibile far rientrare gli obblighi previsti dalle disposizioni CEDU.

    La Corte Costituzionale nelle sue sentenze n. 347 e 348 del 2007, pur includendo gli obblighi CEDU tra gli obblighi internazionali di cui all’art. 117 Cost., da una parte conferisce alla disposizioni CEDU una forza passiva rinforzata rispetto alle leggi ordinarie successive ad esse, e dall’altra le attrae nella propria sfera di competenza, assoggettandole al controllo di legittimità costituzionale che le spetta ex art. 134 Cost. Nel caso in cui, pertanto, una norma ordinaria interna dovesse trovarsi in contrasto con una disposizione CEDU, il giudice comune, dopo aver cercato invano di fornire un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata per le norme interne, deve rimettere la questione al giudice delle leggi, senza poter disapplicare automaticamente la norma interna per far prevalere così la norma CEDU. Il giudice comune, cioè, ancor prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale per il contrasto ravvisato tra la norma nazionale con l’art. 117 primo comma Cost., e indirettamente con il principio CEDU, è tenuto ad accertarsi che non sia in alcun modo possibile interpretare la disposizione interna coerentemente con quel principio sovranazionale. Utilizzando un tale canone ermeneutico il giudice a quo deve mirare, tra le possibili soluzioni esegetiche, a scegliere quella che consente alla norma nazionale di non entrare in contrasto con la disposizione costituzionale, che indirettamente garantisce il rispetto dei principi CEDU. In vista della considerazioni sin qui fatte, appare chiaro che i principi della Convenzione EDU diventano parametri di riferimento per l’interpretazione e la verifica della compatibilità costituzionale delle norme interne, e solo in ultima analisi vanno concepite come fattori di adeguamento dell’ordinamento interno.

     Nel 2007, nonostante la Corte Cost. si fosse espressa in modo chiaro sul rango da dare alle norme CEDU rispetto all’ordinamento italiano, non sono mancate successive pronunce della giurisprudenza amministrativa (TAR e Cons. di St. 2010) che hanno accolto una differente ricostruzione di tale questione. Nel 2009, infatti, in seguito all’entrata in vigore del Tratta to di Lisbona sono emerse delle rilevanti novità sul punto. Tra esse spicca la modifica apportata all’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, il quale ad oggi prevede non solo l’ “adesione” (“rispetto” nel vecchio art. 6 del Tr. UE) dell’Unione alla CEDU, ma ancor di più che i diritti fondamentali garantiti dalla stessa Convenzione, nonché quelli risultanti dalle traduzioni costituzionali comuni agli Stati membri, “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. È stato proprio in riferimento a questa particolare novità che la giurisprudenza amministrativa ha sostenuto la “tesi dell’intervenuta comunitarizzazione” della Convenzione EDU, affermando che le norme della stessa CEDU, ai sensi del nuovo art. 6 del Tr. Di Lisbona, sono immediatamente applicabili ed operanti nel nostro ordinamento in forza del diritto comunitario e quindi troverebbero cittadinanza ai sensi dell’art. 11 Cost.

   È da quest’ultima norma, infatti, che per anni la giurisprudenza ha fatto scaturire l’obbligo per il giudice nazionale di interpretare le disposizioni interne alla luce dei precetti comunitari, operando, se del caso, una diretta disapplicazione in favore del diritto comunitario, senza dover passare per il tramite del controllo della loro legittimità costituzionale.

     La tesi dell’intervenuta comunitarizzazione, però, non ha trovato conferma nell’orientamento della Corte Costituzionale, che nella sent. n. 80/2011 ed in altre sue successive pronunce, ha distinto da un lato gli effetti prodotti dal secondo comma dell’art. 6 del Tr. Sull’UE per come modificato dal Tr. di Lisbona del 2009 e dall’altro quelli scaturenti dall’applicazione del terzo comma dello stesso articolo. Quanto al secondo comma la Corte sostiene che l’adesione dell’UE alla CEDU debba ancora avvenire; il terzo comma dell’art. 6, invece, conterrebbe in sé una forma di protezione già esistente all’entrata in vigore del Tr. di Lisbona. Partendo da queste due premesse, la Corte ha ribadito quanto già precedentemente espresso nelle sent. 347 e 348 del 2007, confermando che non si possa far derivare il rango da ascrivere alle norme CEDU ex art. 11 Cost. e, pertanto, un eventuale contrasto tra norme interne e disposizioni CEDU vada sottoposta al vaglio della stessa Corte, una volta che il giudice a quo abbia tentato invano un’interpretazione delle prime ispirata ai principi della Convenzione del ‘50. In tal modo le norme CEDU divengono nuovamente parametri interpretativi delle norme interne e solo in ultima analisi strumenti di adeguamento dell’ordinamento.

     Ricostruito e chiarito il rilievo dell’art. 7 CEDU nell’ordinamento interno è necessario soffermarsi sull’efficacia nel tempo dei mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti al fatto. A tal fine è possibile proseguire il ragionamento sin qui fatto, facendo riferimento al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole successiva al momento della commissione del fatto di reato e al suo conseguente principio di retroattività favorevole di cui allo stesso art. 7 CEDU. Come si è avuto modo di accennare nella parte iniziale di questa trattazione, il fenomeno della successione di norme penali nel tempo, trova le sue fonti normative, prima ancora che nell’art. 7 CEDU, già nell’art. 25, secondo comma, Cost., che eleva a rango costituzionale il principio della irretroattività della legge facendo espresso richiamo –nella seconda parte del suo secondo comma- all’ordinamento penale, nonché nell’art. 11 primo comma delle disposizioni preliminari al codice civile e nell’art. 2 primo comma cp, nel quale trova la sua forza operante. Tale principio, corollario speciale –come si è detto- del generale principio di legalità, rispondendo ad esigenze di certezza del diritto e dell’insindacabile favor libertatis trova il suo ambito di operatività nelle sole leggi penali sfavorevoli e viene poi ad integrarsi con la disciplina di cui all’art. 2 –co. 2, 3 e 4- c.p. Questi ultimi commi dell’art. 2 c.p. contemplano tre distinte ipotesi di successione nel tempo di norme penali: la prima in cui si applica il principio di irretroattività della nuova legge emanata più sfavorevole per il reo; la seconda inerente la totale o parziale abolitio criminis, per cui in perfetto coordinamento con l’art. 673 primo comma c.p.p. si applica il principio di irretroattività della legge più favorevole anche qualora su quel fatto si fosse formato il giudicato; e la terza riguardante l’ipotesi di successione di leggi modificative del trattamento da riservare al reo da cui consegue che in caso di sopraggiunta modifica più sfavorevole vi sarà irretroattività della legge (art. 2 c.p. primo comma) e in caso di modifica più sfavorevole varrà il principio della retroattività, salvo vi sia già stata sentenza irrevocabile di condanna. È all’interno di questo quadro normativo, ivi sinteticamente ribadito, che si inserisce l’art. 7 CEDU. Nella nota sentenza ‘Scoppola’ del 2009, la Corte EDU ha sostenuto che è possibile desumere dallo stesso art. 7 CEDU non solo una garanzia per il rispetto del principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, ma anche, se pur implicitamente, il principio della retroattività della norma penale più favorevole, incorporato nella regola per cui in caso di differenze tra legge penale in vigore al momento del fatto e legge successiva intervenuta prima della sentenza definitiva di condanna, le Corti nazionali dovranno applicare la norma più favorevole per il reo.

    Chiarito, quindi, il rango dell’art. 7 CEDU e la sua portata applicativa rispetto al principio di irretroattività e dell’incorporato principio di retroattività, rimaneva ancora non chiara la questione inerente se questi principi potessero essere estesi anche alle ipotesi in cui a sopravvenire non fosse una nuova disposizione più favorevole, ma un’interpretazione più favorevole del fatto consacrata in una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Ci si è chiesti, cioè, se il giudice dell’esecuzione possa applicare il principio di retroattività favorevole (art. 2 co.2 c.p.) e revocare il giudicato penale di condanna (art. 673 c.p.p.) in seguito ad una successiva pronuncia delle S.U. della Corte di Cassazione, che abbia interpretato più favorevolmente la norma incriminatrice applicata per giudicare il fatto di reato da cui è conseguita condanna per il reo.

    La questione in esame è stata risolta da un recentissimo intervento della Corte Costituzionale, che con sentenza n. 230/2012, ha risposto in senso inequivocabilmente negativo. Il caso riguardava la questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza del Tribunale di Torino nel 2011 in riferimento alla dubbia compatibilità con gli artt. 3, 13, 25, 27 e 117 co. 1 della Costituzione della lacuna normativa di cui all’art. 673 c.p.p. che prevede la revoca del giudicato di condanna in caso di abolitio criminis o di declaratoria di illegittimità costituzionale solo della norma incriminatrice, e non anche in caso di un intervenuto mutamento giurisprudenziale più favorevole per il reo. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 230, spiega chiaramente che la questione sollevata non può che ritenersi infondata e che non vi è illegittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. con gli articoli della Costituzione indicati nell’ordinanza del Tribunale di Torino. Sicuramente, a parere della Corte, non vi è contrasto tra l’art. 117 co. 1 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU ed il 673 c.p.p., poiché già la stessa Corte di Strasburgo, in diverse pronunce, tra cui anche la già citata sentenza ‘Scoppola’, ha osservato da una parte che l’art. 7 CEDU racchiude in sé sia il principio di irretroattività sia quello della retroattività della legge penale più favorevole al reo e dall’altro che il termine “law”, utilizzato nell’articolo CEDU va considerato comprensivo solo delle “leggi”, per gli atti normativi emanati posteriormente al fatto di reato commesso. In tal modo, quindi, la Corte EDU avrebbe escluso, e non confermato come invece sosteneva il Trib. di Torino nella propria ordinanza, che il principio in questione sia volto ad operare anche per i mutamenti giurisprudenziali più favorevoli. Richiamando la giurisprudenza di Strasburgo, il Giudice delle leggi ha chiarito anche che il principio di irretroattività della norma sfavorevole ha un fondamento diverso rispetto al principio di retroattività della lex mitior poiché il primo è uno strumento di garanzia espressivo dell’esigenza per il soggetto imputabile di poter calcolare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta (autodeterminazione individuale). Questa esigenza non verrebbe tutelata se si ammettesse l’applicabilità di un successivo mutamento peggiorativo della norma sul trattamento penale da infliggere al reo. Il secondo, invece, trova il proprio fondamento nel principio di uguaglianza e quindi nel prevenire situazioni di disparità di trattamento dei destinatari della norma penale su uno stesso fatto di reato. Per escludere in modo ancora più netto il contrasto con l’art. 117 Cost. primo comma, in riferimento all’art. 7 CEDU, la Corte Costituzionale rileva che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole come quello delle Sezioni Unite della Cassazione, non può avere la stessa efficacia di una norma, stante il difetto di vincolatività della decisione per i giudici dell’esecuzione che si sono già pronunciati su un fatto analogo a quello considerato dalla Sez. Un. Gli orientamenti giurisprudenziali, peraltro, sono soggetti a notevoli mutamenti nel tempo, e sarebbe anche per questo che non si potrebbe parlare di vincolatività degli stessi al pari di una disposizione normativa, poiché mancherebbe il carattere di stabilità e generalità tipico di una norma. Un conto, inoltre, sarebbe che il giudice per la propria decisione tenesse in considerazione gli orientamenti sincronici della Suprema Corte comunque non vincolanti per lo stesso, ed altro sarebbe, invece, pensare che una pronuncia additiva, un orientamento giurisprudenziale di tipo diacronico possa avere la forza di intervenire su un giudicato penale di condanna modificandolo in modo più favorevole per il reo. In quest’ultimo caso, a parere della Corte Cost., si assisterebbe ad una vera e propria sovversione di sistema poiché si creerebbe un rapporto di gerarchia tra i giudici dell’esecuzione e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che vincolerebbero i primi anche al di fuori dello specifico giudizio di rinvio, a differenza invece, di quanto esigerebbe la regola dello stare decisis alle generali coordinate dell’ordinamento. In fine, considerare la successione nel tempo tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali alla stessa stregua di quella tra due atti di produzione normativa significherebbe non solo violare il principio della riserva di legge –di cui all’art. 25 secondo comma Cost- , altro corollario del più generale principio di legalità, ma ancor di più violare il principio della separazione dei poteri che vuole il giudice soggetto esclusivamente alla legge (art. 101 secondo comma Cost.).

    In conclusione, pertanto, muovendo da tutte le considerazioni sin qui fatte non può che conseguire che così come la creazione di norme, ed in particolare la creazione delle norme penali, anche la loro abrogazione, che sia totale o parziale, deve senz’altro dipendere non già da mutevoli e spesso antisonanti pronunce giurisprudenziali, favorevoli o sfavorevoli che siano, ma solamente da un atto di volontà del legislatore. Sarà d’obbligo, perciò, per il giudice dell’esecuzione rispettare esclusivamente tali atti di volontà legislativa modificativi in melius del trattamento penale da riservare al reo anche se successivi temporalmente alla sua condanna.


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